Il saluto di don Matteo a Nembro

Di seguito il discorso preparato da Don Matteo per la Messa di saluto a Nembro il 18 settembre 2022.

Perché siamo qui?

Che tipo di giornata è questa? Cosa prevale? La gratitudine per un cammino fatto, la gioia dell’incontro positivo con tante persone, la soddisfazione per molte esperienze che si sono consolidate nel tempo e hanno dato buoni frutti? Oppure la tristezza tipica degli addi, il senso di lacerazione, la frustrazione per un cammino che si interrompe senza che nessuno di noi abbia scelto così?

È un giorno complicato e confuso nel quale si mischiano tra loro i sorrisi e le soddisfazioni e gli occhi rossi perché forse non ci vedremo più, almeno non nello stesso modo.

Siamo qui perché chi nella Chiesa rappresenta l’autorità ha deciso in questo modo. È giusto? È normale? È opportuno? Non ce lo dobbiamo nascondere: c’è qualcosa che ci sfugge, che non ci sembra condivisibile in questi cambiamenti e nel modo in cui vengono decisi e attuati. C’è qualcosa di anacronistico e di violento. Probabilmente il modo di dare gli incarichi e governare il territorio andrebbe radicalmente ripensato. Sarebbe opportuno superare l’idea di una parrocchia immaginata come un feudo dentro il quale può accadere di tutto, di buono o di pessimo, purché non si sollevino problemi per chi se ne sta fuori da quel recinto. Sarebbe il momento storico giusto per smettere di concepire le parrocchie come degli orticelli da coltivare: a noi oggi servirebbero delle piantagioni per sfamare la fame di vita e di verità della gente, non delle file di pomodori perfette ma adatte solo a dare soddisfazioni a chi coltiva il suo hobby. A questa Chiesa, che Sant’Ambrogio definiva “casta meretrix”, dobbiamo comunque dire grazie: senza di lei non ci saremmo mai incontrati.

Se non abbiamo la facoltà di cambiare le cose, nonostante non ci sembrino del tutto corrette, possiamo almeno affrontarle “a modo nostro”. Abbiamo scritto una storia speciale a Nembro, l’abbiamo fatto insieme. Anche questo passaggio viviamolo trasformandolo dall’interno e decidendo innanzitutto che non stiamo celebrando un funerale: se io parto e vado altrove non sono sepolto sotto terra, mi sposto a poca distanza. Assomiglia di più al viaggio di chi una volta salpava per un altro continente e di tanto in tanto mandava notizie a casa, “lo zio d’America” che pur lontano manteneva una parentela con la sua famiglia di origine e la sua terra. Una relazione è sempre ricchezza, anche se in mezzo ci sono i kilometri. Troveremo tutti fortuna perché abbiamo raccolto reciprocamente l’eredità degli altri e sapremo affrontare il futuro con un bagaglio di valori e di capacità unici.

Un’immagine-icona: Expo 2015.

Tra le migliaia di foto conservate nel server dell’oratorio ho estratto una foto. Una sola. Operazione complicata, spero non ingiusta. È la foto della gita del CRE all’Expo di Milano. Era il 7 luglio 2015, eravamo quasi in 400 in una caldissima giornata estiva. Con noi c’era una giornalista dell’Eco di Bergamo accompagnata da un fotografo: volevamo immortalare l’esperienza di un oratorio che aveva deciso di cogliere l’evento del momento. Noi c’eravamo. E quella giornata è un’ottima sintesi del cammino che abbiamo percorso insieme.

Il nostro gruppo era nel luogo al centro dell’attenzione mondiale. Avevamo deciso di non farci sfuggire un appuntamento con la storia ma di viverlo da protagonisti. I temi legati all’alimentazione (la qualità del cibo, la sostenibilità, la lotta alla fame e all’ingiustizia, il significato profondo dell’esperienza della tavola, la scoperta delle altre culture e dei popoli, la costruzione di un mondo pacificato e collaborativo) hanno dato qualità a tutte le attività di quel CRE. Abbiamo imparato che non si deve scappare dalla storia, i passaggi decisivi non ci devono impaurire e il nostro ruolo è solo uno: quello dei protagonisti. In un altro tempo, quello della pandemia (non posso non citarla) la capacità di stare a testa alta di fronte ai drammi della storia ci ha reso una comunità modello davanti al mondo intero. Abbiamo rinunciato a subire i fatti della vita, abbiamo scoperto che cosa significa osare. Abbiamo capito che noi siamo dentro la storia, siamo il presente, noi siamo la storia.

Ed eravamo in tantissimi. Sembrava impossibile portare così tante persone a quella manifestazione, tutti ce lo sconsigliavano: i costi erano alti, tanti i disagi, incerto il risultato. Eppure eravamo tutti lì, insieme. Numeri sempre in crescita e spirito di unità sono stati il tratto distintivo di questi anni. Quante volte abbiamo cambiato i programmi, rivisto l’organizzazione delle attività, reiventato all’ultimo minuto le esperienze perché eravamo più di quel che si poteva immaginare! L’incontro tra noi, il lavoro di tanti educatori – animatori – volontari – catechisti – … ha creato una miscela che ha fatto esplodere la bomba della gioia di vivere. Questo gruppo a Milano a me fa pensare a un’altra situazione storica che ci ha riguardato da vicino: il 18 aprile di quest’anno eravamo in piazza San Pietro con gli adolescenti italiani. C’era Papa Francesco, 80000 ragazze e ragazzi da tutte le regioni e noi, sul palco davanti alla Basilica. C’erano le nostre immagini sui maxi-schermi e le nostre parole nei microfoni. Non eravamo solo in tanti insieme a molti altri: eravamo il segno di una comunità di giovani che ha un’unità e una vivacità da raccontare alla Chiesa intera e al mondo. Abbiamo coltivato questa forza giorno per giorno: nel cortile dell’oratorio, sui sentieri delle montagne che tante volte ci hanno ospitato, sui sedili dei pullman che ci hanno portato un po’ ovunque o sulle selle delle bici con le quali abbiamo raggiunto i luoghi più impensabili…

Non eravamo solo in tanti a Expo, eravamo anche diversi. Un gruppo eterogeneo come lo sono sempre le comunità quando sono sane: grandi e piccoli, istruiti e meno, organizzati e confusionari, curiosi e pigri… Il nostro cammino non è stato quello di una massa indistinta di persone tutte uguali ma un incrocio di storie e sensibilità diverse. Le particolarità di ognuno hanno reso la nostra storia comune incredibilmente ricca. Quel giorno a Expo abbiamo accettato la sfida della diversità: volevamo fare il giro del mondo, visitare tutti i padiglioni. Da soli era impossibile, sommando il percorso di ogni squadra invece lo si sarebbe potuto fare. E ce l’abbiamo fatta.

La nostra è un’esperienza che non fugge dalla complessità ma prova ad abitarla. La fatica di essere insieme è come la salita alla vetta di una montagna: la soddisfazione che si trova alla fine del percorso non è minimamente paragonabile alla banalità di chi cerca una vita semplice, prevedile, scontata. Accettare la complessità e la fatica ci ha resi ogni giorno un po’ migliori.

Questa è la nostra foto di gruppo. Il luogo in cui l’abbiamo scattata ha un significato profondo e bello: l’albero della vita, simbolo di quella manifestazione. È la nostra Tour Eiffel. Il suo ideatore, Marco Balich, voleva riprodurre un simbolo della storia e della cultura italiana: le linee e le geometrie della piazza del Campidoglio a Roma. Il Rinascimento in 3D.

La nostra esperienza di oratorio è stata un tentativo di vivere un nuovo Rinascimento: siamo un’epoca che qualcuno definisce un nuovo medioevo, ma noi, anomali sempre, abbiamo coltivato la fiducia nell’uomo e nelle sue capacità, ci siamo dati da fare, abbiamo provato a costruire la nostra città armoniosa e perfetta, inclusiva, dialogate, nobile d’animo.

Questa torre solleva la piazza verso il cielo. E forse è questa anche la ricchezza più vera che ci accomuna. Tra i tanti bei ricordi e le buone esperienze fatte, ciò che ha veramente ha valore è lo sforzo di andare verso l’altro, di innalzarci verso il cielo. Il seme di questa pianta l’abbiamo trovato nel terreno dei nostri cuori già seminato, forse già germinato. È un dono di Dio che abbiamo, spesso maldestramente, provato a coltivare. Resta una provocazione per il cammino che ci sta davanti, il mio e il vostro: cielo e terra si possono incontrare e lì sta la vera vita.

Non è un caso che l’immagine dell’albero sia cara alla Scrittura sin dalla prima pagina. Non è un caso che la croce venga chiamata albero della nuova vita. Non è certo un caso che sia Gesù quello innalzato per mettere in comunione definitivamente terra e cielo. In tutta questa storia comune siamo fortunati se abbiamo riconosciuto che Gesù è stato in cammino con noi.